venerdì 30 dicembre 2011

La grande Ungheria.

E' finito il tempo dei viaggi sessuali in Ungheria, la monarchia magiara sta riconquistando il potere, Orbàn sta conquistando giustamente e democraticamente tutte le piazze di Budapest, è la Cina europea!

Un gran bell'uomo, giusto, che ama il proprio popolo, che sta rilanciando la propria nazione! W Santo Stefano! W la Sacra Corona!


Bavaglio alla stampa, deputati in manette L'Ungheria di Orbán spaventa l'Europa

Anche la Clinton è intervenuta contro la deriva autoritaria del premier

Il primo ministro ungherese Viktor Orban (a sinistra) col ministro dell'economia Gyorgy Matolcsy (Ap)Il primo ministro ungherese Viktor Orban (a sinistra) col ministro dell'economia Gyorgy Matolcsy (Ap)
BRUXELLES - Ma da dove viene? E, soprattutto, dove vuole (o può) arrivare? Prima di diventare il leader più autoritario (e ansiogeno) d'Europa, l'ungherese Viktor Orbán, 48 anni, è stato un oppositore del regime comunista, si è laureato in legge (con tanto di stage a Oxford), ha professato idee social-liberali, ha fatto il parlamentare europeo fino a ricoprire la carica di vicepresidente del Ppe. Dieci anni fa, quando guidò per la prima volta il governo, Orbán si preoccupava di tagliare le tasse, ridurre la disoccupazione e guidare il suo Paese all'appuntamento con l'Europa. Ora, tornato al potere nell'aprile del 2010, farnetica sul ritorno della Grande Ungheria (ma forse si accontenterebbe anche del formato medio uscito dopo la Prima guerra mondiale). Intanto minaccia di ridurre la Banca centrale a semplice «ufficio bolli» dell'esecutivo, di soffocare definitivamente giornali e televisioni non graditi, di varare una grottesca legge elettorale che favorirebbe in modo smaccato il Fidesz, «l'Alleanza dei giovani democratici», il partito fondato nel marzo del 1988 dall'Orbán che il mondo sta imparando a conoscere.

Da giorni Budapest è una città tesa. Il 23 dicembre i deputati dell'opposizione si sono addirittura incatenati davanti al Parlamento, un grandioso edificio neogotico costruito nel 1844 sulla sponda destra del Danubio, proprio di fronte al Castello di Buda, arcigno simbolo dell'assolutismo monarchico, costruito in pieno Medioevo dal principe Stefano e ampliato da Sigismondo, sovrano del Sacro romano impero. Divagazioni? Non proprio, visto che nei mesi scorsi il partito del nuovo leader, mentre il debito pubblico quasi raddoppiava, mobilitava la schiacciante maggioranza conquistata in Parlamento (due terzi dei seggi) per inzeppare la nuova Costituzione, che entrerà in vigore dal primo gennaio, con riferimenti alla mitologia e alla retorica nazionalistica, con Santo Stefano, la Sacra Corona, la diaspora delle minoranze magiare nel centro Europa.
«Sembra di essere tornati agli anni 50», racconta al telefono da Budapest Zita Gurmai, europarlamentare ungherese, responsabile per le pari opportunità del gruppo Socialisti e democratici. C'era anche lei, la settimana scorsa, davanti al Parlamento: «La polizia ha arrestato persino i deputati, compreso l'ex primo ministro Ferenc Gyurcsány. Mi amareggia molto dirlo, ma oggi, con queste leggi e con questa guida, l'Ungheria non sarebbe ammessa nell'Unione Europea, perché non soddisfa più "i criteri di Copenaghen" sulla democrazia e il primato della legge».

I governi europei e le stesse istituzioni di Bruxelles ci hanno messo più di un anno per capire. Nel gennaio scorso Orbán si presentò davanti all'Europarlamento in veste di presidente di turno della Ue. L'emiciclo gli riservò un'accoglienza ruvida, paragonabile a quella accordata a Silvio Berlusconi nel 2003. Ma nessuno, in alcuna capitale europea, evocò neanche l'ipotesi di mettere l'Ungheria al bando dell'Europa. Perché la «deriva autoritaria» di Budapest, come ormai la definiscono molti giornali internazionali, nasce anche dall'imbambolamento generale degli ultimi 8-10 anni. Non solo alla Grecia, ma anche al governo del socialista Gyurcsány, è stato concesso, per esempio, di giocare con i bilanci pubblici. Del resto l'Ungheria non ha mai dato problemi a Bruxelles. Ah sì: lo scontro nel 1993 tra i viticoltori friulani e i rivali del lago Balaton per la denominazione del vino Tokai (vittoria ungherese). Cose da niente, un'innocua nota di colore, rispetto al grande disegno dell'allargamento, al destino europeo dell'Ungheria, il Paese dell'ex blocco comunista più aperto al mondo. Bene, evidentemente anche questo concetto va riposto nella soffitta dei luoghi comuni che si fa sempre più affollata. Gli Stati Uniti si sono già mossi, con una secca lettera di protesta indirizzata al premier ungherese e firmata dal segretario di Stato, Hillary Clinton. Nel Parlamento europeo si comincia a esaminare la procedura prevista dall'articolo 7 del Trattato di Lisbona: via i diritti di voto a chi non rispetta i principi fondamentali dell'Unione, cioè libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e dello Stato di diritto. Tutti valori che, almeno quelli, sembravano inattaccabili. Anche in Ungheria


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